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LA PRIGIONIERA DEL DESERTO
(CAPTIVE DU DESERT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 maggio 1990
 
di Raymond Depardon, con Sandrine Bonnaire, Dobi Koré (Francia, 1990)
"Racconto di finzione, ispirato esplicitamente dal sequestro nel deserto della francese Francoise Claustre da parte di guerriglieri rivoluzionari del Tchad (e sul quale il celebre fotografo-documentarista aveva già effettuato un reportage), LA CAPTIVE DU DESERT, nella sua continuità ineluttabile (qualcuno dirà monocorde), si articola in due parti ben distinte.

La prima, per inserire lo spettatore nell'ambiente: il deserto, con i suoi tempi, la sua vita, la sua filosofia. La seconda, per far subire alla protagonista, (cosa comprensibilmente più difficile) il medesimo procedimento: farle accettare, fino a diventarne un testimonio attivo, la condizione della comunità con la quale è costretta a convivere.

LA CAPTIVE DU DESERT è quindi un film che s'impone sullo spettatore. Nel senso che, attraverso una coercizione, le immagini di Depardon obbligano lo spettatore dapprima, la protagonista in seguito, ad entrare di viva forza in una dimensione, in una logica che ci è all'inizio totalmente estranea. Ovvio, di conseguenza, che per noi che ce ne stiamo comodamente in poltrona, è la prima parte la più difficile. Poiché è quella che, a colpi (ma meglio dovremmo dire a tirate) di sfilate in carovana, sotto il sole, all'imbrunire, di notte, al risveglio, ci conduce a qualcosa di più della classica "entrata in situazione". Ad una conoscenza di uno spazio, che diverrà conoscenza di una situazione.

Ci condurrà, soprattutto, a poter seguire l'itinerario ben più arduo della donna: quella sua condizione iniziale di prigioniera, sorvegliata a distanza con relativa severità poiché tutt'intorno non c'è che l'immensità del deserto. Obbligata (come noi prima) più che altro ad osservare: operazione che il cinema, per sua natura stessa, asseconda mirabilmente. Invitata, progressivamente, ad una sorta di presa di coscienza: quando, in una splendida, semplicissima sequenza, Sandrine Bonnaire (come sempre, straordinaria di presenza fisica - in un film praticamente senza dialoghi -, di sintesi commovente fra slanci, ancora ingenui, che appartengono all'adolescenza, e drammatici viaggi interiori della maturità) si accosta alle donne del villaggio per lavare i suoi panni. Per un istante, che finirà col ripetersi nella scena in cui la donna insegna alle bambine le filastrocche infantili, il tempo sembra allora essersi fermato: ed aver abolito le differenze, di storia, di razza, di cultura .

Fino alla liberazione finale (che ci gratifica di un altro splendido momento, il discorso più lungo del film, trenta secondi, di una giustezza sbalorditiva) LA CAPTIVE entra allora nella nostra memoria, dopo averci dovutamente esasperato: progressivamente lo sguardo di Depardon, che è essenzialmente documentarista, etnologico, si è accostato a quello del creatore di finzione. Ed i due filoni, accomunati, si sono impreziositi a vicenda, donando accenti di verità, impulsi di dialettica politica e sociale dei più coinvolgenti ad un'esperienza che pareva essere soltanto intellettuale ed estetica."


   Il film in Internet (Google)

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